Cocaweb: una generazione da salvare

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Intervista ad Andrea Cangini, già direttore del Quotidiano Nazionale e senatore, oggi segretario della Fondazione Luigi Einaudi, autore di un libro che fa riflettere molto sugli effetti, spesso devastanti, della dipendenza dai social dei giovanissimi. “Stiamo assistendo all’indebolimento cognitivo delle nuove generazioni. Si può parlare ormai di ‘demenza digitale’”

È un libro che non fa sconti, quello di Andrea Cangini, lo si capisce già dal titolo: ‘Cocaweb: una generazione da salvare’. Un saggio che denuncia, non solo, la dipendenza dei giovanissimi (spesso anche degli adulti) dai social, ma l’effetto di causa-effetto con l’indebolimento cognitivo. “Si sta perdendo l’uso della lingua”, sottolinea Cagnini, “la capacità di esprimere ragionamenti complessi, di porre l’attenzione su un’unica cosa per più di pochi minuti, alle volte secondi. I ragazzi non riescono neppure a seguire una partita di calcio dall’inizio alla fine”. Ospite, nei mesi scorsi, della rassegna ‘A spasso coi libri’, intervistato da Alessia Valducci, per i Lions Rimini Host e Leo Rimini, abbiamo intervistato l’ex direttore del QN – Il Resto del Carlino e senatore, sui temi di grande attualità trattati nel libro.

‘Coca web’, si tratta di un titolo forte. Da dove nasce?

“Nasce da un lavoro parlamentare che ho svolto nella scorsa legislatura in Commissione Istruzione del Senato, promuovendo un’indagine conoscitiva sull’impatto che i giovani ricevono dall’abuso delle tecnologie digitali, come i social network e i videogiochi. Gli esperti, soprattutto neurologi, che abbiamo ascoltato in commissione, ci hanno spiegato che l’uso di tali dispositivi, per queste finalità, produce, a livello cerebrale, gli stessi effetti della cocaina. Il cervello è infatti incoraggiato a rilasciare quel neurotrasmettitore che consente di amplificare la sensazione di piacere: la dopamina. Quindi non c’è una grande differenza tra l’effetto dell’uso di cocaina e quello dell’abuso di social di videogiochi ecc., da parte dei più giovani. Con la differenza che il cocainomane sa di essere dipendente, mentre i giovani e soprattutto i genitori dei giovani che abusano di tecnologia digitale, non lo sanno, ritengono che sia normale.

Quando questo lavoro è stato svolto in commissione, si parlava molto poco di agire rispetto al fenomeno, ma la relazione finale che ho scritto, approvata all’unanimità, non ha suscitato il clamore che il fenomeno meriterebbe. Oggi è cambiato molto, ormai non passa giorno senza che un grande giornale pubblichi un articolo per dar conto di rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, piuttosto che studi scientifici fatti da università britanniche, tedesche, francesi o del dibattito che sta avvenendo all’interno del Parlamento francese, che denuncino un allarme molto grave sul tema.”

Cosa sta succedendo, secondo lei?

“Stiamo assistendo all’indebolimento cognitivo delle nuove generazioni, che si accompagna, cosa non meno allarmante, all’aumento esponenziale di tutte le patologie di ordine psicologico con cui, sempre i più giovani, hanno avuto a che fare, ma mai come oggi.”

In che modo?

“Con attacchi di panico, ansia, depressione, stress e disturbi alimentari. Anche le tendenze suicidarie sono in vertiginoso aumento e questo non può che spaventarci, anche il legislatore dovrebbe prendere provvedimenti. Non si tratta, infatti, di fare una crociata contro la modernità, ma di governare un fenomeno gigantesco e molto profondo, come quello delle conseguenze dell’uso del web e regolarlo secondo criteri di buon senso e di responsabilità.”

Perché i ragazzi sono i più colpiti?

“Si tratta di un fenomeno trasversale, che riguarda tutti, senza distinzione.
Stiamo assistendo, nel nostro Paese, a quello che, già da qualche anno, avveniva nei Paesi dove la tecnologia digitale si è diffusa prima e in maniera più capillare, come la Cina o il Giappone o la Corea del Sud. Qui il fenomeno è globale, senza distinzioni trasversali: come ha detto un celebre neurologo tedesco che abbiamo udito in commissione parlamentare, si può parlare ormai di ‘demenza digitale’. Si stanno infatti indebolendo le facoltà mentali di tutti e, naturalmente, chi ne risentirà di più nel corso della vita, sono le persone più svantaggiate, quelle famiglie dove magari lavorano entrambi i genitori e non hanno molto tempo per seguire la vita dei figli.”

Può farci qualche esempio di questa ‘demenza digitale’?

“Si sta perdendo l’uso della lingua, la capacità di esprimere ragionamenti complessi, di porre l’attenzione su un’unica cosa per più di pochi minuti, alle volte secondi. I ragazzi non riescono neppure a seguire una partita di calcio dall’inizio alla fine…”

Un’obiezione abbastanza diffusa, rispetto a quanto lei sta affermando, è che se è vero che si stanno perdendo delle facoltà mentali, è anche vero che se ne stanno creando di nuove, cosa risponde?

“Sono anni che studio il fenomeno, che parlo con esperti, leggo libri e pubblicazioni su riviste scientifiche di mezzo mondo. Non è vero, purtroppo semplicemente non è vero. Si perdono delle facoltà e questo è acclarato, ma non per questo se ne guadagnano delle altre. Il fatto che un bambino di sette anni sappia usare un iPad non dimostra una sua particolare inclinazione o competenza e non gli sarà utile in nulla nella vita, perché, prima o poi, tutti imparano ad usare un iPad, un computer o uno smartphone e a utilizzarlo anche al di là del dell’uso ordinario. Mentre gli sarebbe utile nella vita sviluppare al meglio le proprie capacità di critica e di elaborazione mentale.
Mettiamola così, Luigi Einaudi, grande liberale e Presidente della Repubblica, che dà il nome alla Fondazione da cui le parlo adesso e di cui sono segretario generale, diceva che la società è sana quando un individuo è messo nelle condizioni di realizzare al massimo le proprie potenzialità intellettuali.
Oggi sta accadendo esattamente il contrario: mai come adesso i giovani sono indotti a tenere compresse le proprie capacità e, per capirci, è acclarato che queste generazioni hanno un quoziente d’intelligenza più basso rispetto alle precedenti: questo non era mai successo nella storia dell’umanità.
Anche i disturbi nell’apprendimento sono aumentati molto: negli ultimi 3-10 anni, sono aumentati del 357% i casi di disgrafia, la difficoltà a scrivere a mano in corsivo.
E poi ci sono le difficoltà ad entrare in contatto fisico e reale con gli altri e di esprimersi. E si tratta di danni irreversibili.”

Può farci qualche esempio?

“Faccio solo un esempio, tra i tanti studi internazionali, cito quello che mi ha colpito di più, perché evoca un contesto che abbiamo visto tante volte, nei film americani: l’Accademia Militare West Point, dove entra solo chi ha una particolare vocazione allo studio. Hanno preso un corso, l’hanno diviso in due classi: una l’hanno fatta studiare solo con carta e penna, l’altra solo con strumenti digitali, iPad e computer. Alla fine del corso, la classe che ha studiato con carta e penna ha ottenuto risultati almeno del 20% superiori a quelli di chi aveva studiato sui dispositivi digitali.
Esempi del genere se ne potrebbero fare a decine, credo che sia scientificamente provato che riversare quattrini nelle scuole per digitalizzarle sia un modo per sprecare denaro pubblico. Segnalo anche il Rapporto Invalsi dello scorso anno, (quello che misura le competenze degli studenti, ndr), che ci ha restituito una fotografia spaventosa del Paese: la metà dei ragazzi che accede al diploma o frequenta corsi universitari, non è in grado di comprendere il senso di un testo scritto in italiano.”

Che iniziative si possono portare avanti per affrontare il problema?

“Il fenomeno è epocale, quindi nessuno pensa di poter invertire il trend, però si può fare molto, settore per settore. Nella scorsa legislatura a me ha molto impressionato la testimonianza di una grafologa ferrarese, si chiama Alessandra Venturelli, che ci ha fatto riflettere sull’importanza della scrittura a mano per esercitare il cervello. Scrivere a mano in corsivo, leggere su carta, sollecita l’emisfero sinistro del cervello, che è quello che presiede al pensiero logico-lineare. Il cervello smette di svilupparsi a 25 anni di età, quindi si sviluppa per buona parte della nostra vita. Se non viene sollecitato, il nostro apparato cerebrale smette di svilupparsi e, di conseguenza, di governare gli stimoli che riceveremo dalla parte del nostro cervello legata alle emozioni. Viviamo in un’epoca in cui siamo più che mai sollecitati da sentimenti ed emozioni, forti e violente e, a maggior ragione, dovremmo essere tutti quanti più che mai capaci di governare questo flusso di sentimenti e di paure e di razionalizzarlo. Ma se la parte del cervello che è preposta a questo compito, anziché rafforzarsi si indebolisce, capite bene che sarà molto difficile riuscirci e quindi saremo, tutti quanti, sempre più condizionati da elementi irrazionali ed emotivi.
Ed è quello a cui lavora chi gestisce i social network, in maniera programmatica. Che si chiami ‘X’ piuttosto che ‘Facebook’, l’obiettivo è di tenerci attaccati lì il più a lungo possibile, perché più a lungo stiamo lì, e più siamo il loro business.
Sa che quello che ci suscita più interesse, quasi morboso, tanto da rimanere collegati a lungo, sono le cose che più ci fanno paura, o quelle che più palesemente esulano dall’ordinario, come le fake news?
Una ricerca del MIT (Massachussetts Institute of Technology) ha dimostrato che i tweet con le notizie false si diffondono sei volte più velocemente rispetto alle notizie vere. Quello che fanno i programmatori degli algoritmi dei social network, è quindi esaltare il peggio di noi. E ci stanno riuscendo. Sta infatti cambiando proprio la neurologia e la biologia del corpo umano, cioè stiamo cambiando come persone, anche a livello fisico e neurologico: le nostre connessioni mentali stanno cambiando per consentire ad un pugno di uomini di fare colossali guadagni.
Quando incontro gli studenti, vedo che la cosa che più funziona è quando gli racconto di un’inchiesta fatta dal New York Times nel 2001. In redazione si posero una domanda interessante: che rapporto hanno con gli smartphone i figli dei top manager dei giganti del web? Studiarono caso per caso e scoprirono che la maggior parte dei manager non consegnava uno smartphone ai propri figli. C’è chi si è dato come limite i 14 o 15 anni, chi addirittura 16 anni. Perché? Perché, come ha detto Sean Parker il cofondatore di Facebook, primo presidente del social, “Dio solo sa i danni che i social network hanno arrecato alle menti dei nostri figli”.

Insomma, Io credo che questo sia il grande tema di quest’epoca, e che chiunque abbia una responsabilità pubblica, diretta o indiretta, non possa non affrontarlo.
Personalmente vengo da una cultura liberale vera e non mi piacciono i divieti, anche perché, di solito, sortiscono effetti contrari a quelli voluti, però quando parliamo di minorenni o minori di 10 anni sono necessari. Così come consideriamo normale vietare ai minorenni di bere alcol, fumare, viaggiare da soli o guidare la macchina, io credo che dovremmo cominciare a considerare normale vietare l’uso degli smartphone e l’abuso di videogiochi prima dei 14 anni.

Che strada si può percorrere?

“La prima cosa è fare opera pedagogica, di informazione e formazione. Parlare prima di tutto con gli insegnanti. C’è una consapevolezza che si va diffondendo, giorno dopo giorno, sempre di più nelle scuole: non c’è stato bisogno di attendere la direttiva del ministro dell’Istruzione per tenere gli smartphone da fuori dalle classi e molte comunità, associazioni e scuole stanno incoraggiando i propri ragazzi a mettersi alla prova, provando a fare a meno dello smartphone per qualche giorno. Ci si accorge che, soprattutto nel primo periodo, essere costretti a fare a meno dello smartphone crea scompensi di ordine psicologico e vuoti che ormai non siamo più in grado di riempire.

Dobbiamo muoverci su più piani per diffondere prima di tutto una consapevolezza di un fenomeno epocale: abbiamo una responsabilità molto grande.”

A cura di Alessandro Caprio

La presentazione del libro ‘Cocaweb’ nell’ambito della rassegna ‘A spasso coi libri’. Da sinistra: Alessia Valducci, Andrea Cagnini e Francesco Raganato.

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